Delazione, frustrazione e soluzionismo

Mentre il lockdown supera ufficialmente i canonici 40 giorni e finisce l’honeymoon sociale dei primi momenti di crisi che ci aveva portato a cantare sui balconi, ad appendere bandiere a volerci tutti bene, destra e sinistra, cani e gatti, pisani e livornesi, pian piano si assiste ad un progressivo ritorno alla “normalità” fatto di polemiche, insulti e generalizzato sospetto verso il prossimo. Cresce l’insofferenza e si stagliano all’orizzonte fenomeni diversi, alcuni più percepibili, altri più sfumati, ma tutti figli naturali della società in cui viviamo. 

In un primo momento abbiamo assistito a qualcosa di definibile come delazione da balcone, preoccupante perché espressione di un atteggiamento tipico di chi è propenso a trasferire le insoddisfazioni personali su altri, come se il proprio malessere fosse un qualcosa di estrinseco, avulso da cause interiori; ad essa si è contrapposta negli ultimi giorni una diffusa frustrazione, un’insoddisfazione crescente per le imitazioni imposte, ormai due mesi fa, alla nostra libertà personale. Andiamo con ordine.  

La delazione, fenomeno antico già citato da Tacito come pratica diffusa nel senato di Roma, ha visto nuova luce con l’attuale pandemia. La necessità di fotografare il vicino intento a fare una passeggiata o mentre più banalmente si reca al lavoro e postare la conquista sul gruppo social del quartiere ha dato una ragione alle esistenze di una massa informe di tastieristi una volta esauritosi l’appuntamento delle sei in cui poter applaudire ai medici e infermieri “eroi” della quarantena, ma che eroi non sono o almeno non avrebbero dovuto esserlo. La ragione di tali comportamenti è stata giustificata con l’idea che se le persone avessero continuato con le passeggiate “da questa situazione” non ne saremmo mai usciti, quando però è ormai evidente che la crisi dei contagi è dovuta ad un insieme di situazioni oggettivamente ingestibili legate ad alcuni errori politici sia a livello centrale che regionale: le fabbriche aperte fino a metà marzo nelle zone della provincia di Bergamo, gli ospedali diventati moltiplicatori di contagi e più in generale una mancanza generalizzata di strumenti di prevenzione individuale su tutto il suolo nazionale. Capitolo a parte sono state le case di cura trasformate in centri Covid senza però essere riusciti a garantire la sicurezza per i suoi ospiti. Rsa tragicamente diventate una trappola per i nostri anziani nonché una delle pagine più buie di questa emergenza. Insomma, è chiaro a tutti che la caccia al runner è stato solo uno dei tanti modi per dare sfogo alle proprie frustrazioni, ma non ha avuto nessun effetto nel limitare la propagazione del virus. Tale clima d’odio, oltretutto, è stato prontamente cavalcato dai mezzi d’informazione e dalla tv generalista obbligata a riempire palinsesti ad ogni ora del giorno: dalla coppia rimproverata in diretta tv su la 7 perché camminava mano per la mano, al servizio di Agorà dove viene mostrata la caccia ad un anziano corridore in un parco di Roma, fino ad arrivare ai tristemente noti servizi di Barbara D’Urso e della sua inviata in elicottero. 

Émile Durkheim, un famosissimo sociologo del diritto dell’800, sosteneva che l’idea di pena avesse origine in una reazione passionale ad comportamento che ci mette in pericolo, la pena è in sostanza espressione di un classico meccanismo di autodifesa, in principio individuale e poi abbracciato dalla società una volta che questa si è formata. Ecco queste sue parole mi sono risuonate in testa ogni volta ho visto qualcuno puntare il dito contro il passeggiatore di turno accompagnando la condanna alla pena del “tornatene a casa”: una condanna espressione di un meccanismo di autodifesa (se esci mi metti in pericolo/torna a casa) mosso da istinti passionali e poco ponderati vista l’oggettiva impossibilità di stabilire i motivi più o meno legittimi di una persona che sta camminando sotto casa tua.

Tirando le somme, l’esito finale di questo grande equivoco è stato spostare sul singolo cittadino l’attenzione mediatica degli errori della classe dirigente.
Una classe dirigente che non ha mai smesso di negare con tutte le forze eventuali responsabilità della crisi in atto. Se gli esempi più virtuosi non sono mancati in alcune regioni è andata diversamente. Se mai vi capitasse, spero per voi di no, di assistere ad uno dei quotidiani bollettini dell’assessore al welfare della ragione Lombardia Gallera vi sembrerà di piombare in un mondo fatato, fatto di inopportune autocelebrazioni al limite della strafottenza (ormai già agli annali la frase “in Lombardia le abbiamo azzeccate tutte” dell’assessore al territorio Foroni) sintomo che vivere nella realtà o quantomeno avere una minima consapevolezza di cosa ci circonda non è poi così scontato.

Con l’arrivo della mitologica fase due, però, i problemi sembrano già altri. Accantonato il fremito delatorio, la ribalta è in capo ai paladini dell’habeas corpus, spesso ex delatori, la maggior parte stanchi di stare in casa e vogliosi di riacquistare la libertà dello spritz, già riversi in casa di congiunti, amici, congiunti di amici, conoscenti e amici di conoscenti (come se il virus fosse magicamente sparito), specchio della più media umanità, quella senza memoria, quella che non riesce a vedere i pericoli se questi non hanno sostanza, quelli dimenticano che il futuro si costruisce spendendo nell’invisibile, nel prevenire le malattie non nel curarle.
I meccanismi che muovono questa inconsapevolezza sono comprensibili sia chiaro, la prevenzione è ingannevole perché non saprai mai se è stata utile o meno: è spesso difficile, infatti, capire se l’esito della prevenzione è avvenuto proprio perché hai fatto prevenzione o aldilà di questa comunque non sarebbe accaduto quello che tentavi di prevenire.
Il filosofo e professore universitario Paolo Becchi ha pubblicato un articolo, scritto a quattro mani con Giovanni Zibordi trader e consulente finanziario, sul Sole 24 ore in cui fa notare che l’Italia ha distrutto la sua stessa economia in nome di una prevenzione del tutto inutile visto che i morti complessivi in Italia sarebbero da inizio anno addirittura inferiori a quelli del 2019. Tale ragionamento, oltre ad essere del tutto illogico perché evita di considerare le persone salvate proprio dal lockdown, mostra quanto sia semplice giocare contro la prevenzione in nome di qualsiasi interesse che si reputi in quel momento più importante, nel caso di specie l’economia.

Prevenzione e chiusura sono state le principali, se non uniche, soluzioni dei nostri scienziati i quali, per la prima volta nella storia della Repubblica, sono diventati i protagonisti indiscussi dei palinsesti televisivi mentre giornalisti, opinionisti ed economisti si sono trovati nell’inedita veste di comparse di un film che non gli appartiene. Tale situazione, come era ben prevedibile, si sta pian piano esaurendo. Negli ultimi giorni i vecchi volti noti sono usciti dal letargo forzato vogliosi di tornare a fare quello che gli riesce meglio: polemizzare.
Lo fanno legittimati dall’idea che gli scienziati, i virologi e gli epidemiologi abbiano fatto ben poco per permetterci di uscire da questa situazione. Molti, infatti, si aspettavano dalla scienza risposte immediate ad un problema nuovo ma la scienza funziona per osservazione e nonostante l’utilizzo di modelli già esistenti non si può richiederle di passare un colpo di spugna nel giro di una nottata: si pensi, un esempio per tutti, al fatto che ancora non esista un vaccino per l’HIV a quasi 40 anni dalla sua scoperta. E anche se le speranze di un vaccino contro il coronavirus sono ben maggiori rispetto a trovarne uno contro il virus che causa l’AIDS, deve essere chiaro a tutti quanto sia necessaria la pazienza. Ma è ormai palpabile come di pazienza nessuno voglia più sentir parlarle e nonostante l’evidenza di un mondo ormai cambiato quello che si chiede a gran voce è: “ripartiamo e torniamo alla normalità”.

Dietro quello che sembra un buon auspicio si annida però qualcosa di tremendamente insidioso.
Innanzitutto bisogna capire se è possibile ripartire davvero e in che modo. Il tema è complesso e va ben oltre le mie competenze ma è evidente che finché il numero di riproduzione di base del virus, il famoso R0, non arriverà a 0,2 come indicato dagli esperti (al momento siamo poco sotto l’1), non si potrà pensare ad un ritorno alla normalità così tanto agognata.

Ma soprattutto la normalità è quello di cui abbiamo bisogno? O meglio, ci è davvero utile la normalità che c’era prima della pandemia?
La normalità è la principale responsabile del climate change e dei disastri ambientali ad esso collegati, una crisi ben più grave di quella del Coronavirus a sua volta incentivata proprio dai cambiamenti climatici. Un cerchio che si chiude e ci mette di fronte a un presente difficile e a un futuro drammatico. Alanna Shaikh, esperta mondiale in osservazione delle popolazioni e dei sistemi sanitari, spiega perché la pandemia di Covid-19 è solo la prima delle molte che potranno accadere nel prossimo futuro. Vi allego il link, ascoltatela. https://www.ted.com/talks/alanna_shaikh_coronavirus_is_our_future/transcript?language=it

crediti www.pk.mashable.com

Dall’altra sponda del fiume, invece, la mancanza di normalità ha fatto abbassare i livelli di inquinamento tanto da farci sentire aria di montagna nelle nostre metropoli, non servono neanche dati, ognuno di noi se ne è accorto mettendo piede sul balcone. Almeno una buona notizia in un periodo così difficile? Beh non proprio. Per una ragione molto semplice, dopo qualunque crisi spesso avviene un forte aumento della produzione economica che porta a un innalzamento immediato dell’inquinamento atmosferico: il cosiddetto effetto rimbalzo.
Se si analizzano i dati di alcune grosse crisi del passato ci si accorge che la ripresa ha sempre portato ad emissioni di gas serra addirittura superiori a quelli della situazione pre-crisi.

fonte e crediti immagine: http://italyforclimate.org/wp-content/uploads/Gli-effetti-del-lockdown-sulle-emissioni-di-Co2-in-Italia.pdf

Tutto questo dovrebbe metterci di fronte alla più semplice delle domande: a cosa serviamo noi? A cosa serve la nostra presenza in un mondo che pare ripartire tre secondi dopo che noi ci siamo fermati. Sembra che la nostra unica missione sia trovare soluzioni ai problemi che noi stessi creiamo, è la resilienza di un sistema che fa di tutto per sopravvivere. Le soluzioni che partoriamo, anche quelle più innovative, quelle che vengono accompagnate dall’etichetta di “rivoluzionare” finiscono sempre per garantire l’esistente, il mito della normalità.
Evegeny Morozov, sociologo esperto in tecnologia e informazione, sostiene da anni che stiamo vivendo un periodo storico basato sull’ideologia del “soluzionismo”. Tutte le tecnologie che si mettono in campo, secondo Morozov, comprese quelle riguardanti l’attuale crisi, hanno il fine ultimo di garantire al sistema di risolvere le sue contraddizioni interne (produzione eccessiva, cambiamento climatico, pandemia) generandone anche un profitto. È la “tecnologia della sopravvivenza”, i nostri comportamenti irresponsabili causano una pandemia globale? Noi avremo un’app che ci permetterà di uscire in tutta sicurezza per andare al lavoro o a fare la spesa. Funzioneranno benissimo perché si poggiano sulle uniche infrastrutture che godono di investimenti, quelle basate sul consumo individualizzato, sull’accumulo dei dati personali e delle nostre preferenze, mentre scarseggiano infrastrutture che puntano sulla solidarietà, sull’assistenza e sulla comunità. Ripartire sarà più semplice del previsto se il modello di società su cui basarsi è quello del compratore su Amazon. Molto più difficile, invece, sarà costruire un mondo diverso.

Riferimenti:

https://thevision.com/coronavirus/pandemia-autoritarismo/

Émile Durkheim, De la divsion du travail social, Paris, Alcan, 1893

https://www.ilsole24ore.com/art/siamo-l-unico-paese-mondo-che-sta-distruggendo-sua-economia-e-sua-cultura-causa-virus-ADemZwK

https://www.iss.it/primo-piano/-/asset_publisher/o4oGR9qmvUz9/content/id/5268851

Evegeny Morozov, L’emergenza sanitaria e il rischio del totalitarismo, su Internazionale, n.1352, anno 27

Published by: Francesco Nirani

Laureato in giurisprudenza presso l’Università di Firenze esperto in argomentazione e logica giuridica. Cucino dall’età di 8 anni, faccio fotografie anche senza usare il cellulare, conosco la storia di ogni sport esistente e di quelli che dovranno ancora essere inventati, guardo film in vhs. Mentre ascolto Calcutta mi convinco che l’Italia stia vivendo il suo Rinascimento musicale, poi mi fermo e penso di aver esagerato anche stavolta. Credo che la presenza dell’umanità sulla Terra sia del tutto superflua. Mi piace dormire.

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